Movimenti e rappresentanze

In questi anni il Consorzio Abele Lavoro ha investito energie, insieme a molti compagni di strada, nell’elaborazione culturale e nella proposta politica. Questo percorso ci ha portato spesso ad interrogarci sulla relazione tra queste iniziative spontanee, “di movimento” e le organizzazioni che hanno come compito la rappresentanza del movimento cooperativo. Si è consapevoli che questa riflessione è bel lontana dall’essere compiuta, ma si è comunque ritenuto utile condividerla, nella speranza che possa contribuire ad avviare un confronto.

Cosa accade

Partiamo da alcune esperienze che hanno coinvolto anche il nostro consorzio: 300 organizzazioni che sviluppano, nelle tre edizioni della Biennale, un’azione culturale sul tema della Prossimità; un centinaio che aderiscono al Manifesto per l’inserimento lavorativo; circa mille persone che, in pochi giorni, fanno proprio durante il lockdown l’appello con sei proposte per il rilancio del Paese centrate sul ruolo del Terzo settore. Ma anche molto altro, nel Terzo settore italiano: l’azione sviluppata da diversi cartelli di organizzazioni sul fronte della povertà a metà degli anni Dieci, da cartelli come Miseria Ladra, Alleanza contro la Povertà – l’esempio di maggiore successo in assoluto nel nostro Paese – e ora il Forum Disuguaglianze Diversità; le tante aggregazioni di enti e di persone che in questi anni hanno sostenuto politiche per l’accoglienza e contrastato le derive securitarie con appelli, manifesti, lettere aperte, raccolte firme.

Il Terzo settore italiano ha voglia di movimento e ha voglia di fare politica. Si è dimostrato in grado di aggregarsi su temi specifici, di trovare e rilanciare posizioni comuni, spesso di ottenere una certa visibilità e di contribuire in misura maggiore o minore a orientare le politiche e il clima culturale del Paese. Si mobilita non per salvaguardare propri pur legittimi interessi – ad esempio per contrastare una norma che impone nuovi gravami fiscali – ma per temi di interesse generale, riscoprendo una funzione di advocacy o comunque di produzione culturale che talvolta sembrava smarrita. Si mobilita collettivamente, in alcuni casi con obiettivi politici definiti (approvazione / abrogazione di una legge, come nel caso dei cartelli sul tema della povertà e dell’accoglienza), talvolta in forma di movimento che si propone di portare all’attenzione pubblica un tema e stimolare confronto e consapevolezza, come nel caso della Biennale della Prossimità.

Questa tendenza alla mobilitazione collettiva non è in assoluto nuova. Si pensi al comitato “Il welfare non è un lusso” che oltre dieci anni fa aggregava numerosi enti per contrastare i tagli dei fondi alle politiche sociali che dal 2008 in poi hanno depotenziato il nostro sistema di protezione sociale o, andando ancora più indietro e pensando ad ambienti culturali a noi prossimi, il cartello “Educare, non punire” di fine anni Ottanta sul tema delle dipendenze. Ma sicuramente questi ultimi anni sono stati particolarmente vivaci e soprattutto contrastano una lettura del Terzo settore ripiegato su se stesso e sulla propria sopravvivenza.

Il ruolo delle rappresentanze

La domanda sorge spontanea: in tutto ciò, che ruolo ha il sistema di rappresentanza e in specifico, per quanto ci riguarda, le rappresentanze del movimento cooperativo? Come si sono poste e si stanno ponendo quando gruppi di loro associati sviluppano un contenuto culturale o politico e lo pongono all’attenzione pubblica? Sono esse stesse luogo di elaborazione e sviluppo? Sono propense ad accogliere questi stimoli o al contrario li trattano con fastidio, come un’indebita interferenza in un ambito di azione che ritengono a loro riservato? Non vi è dubbio che vi siano state fasi in cui le rappresentanze del movimento cooperativo hanno giocato un ruolo di rilievo anche su questo fronte contribuendo a creare valori e identità del movimento cooperativo, ma oggi è ancora così? E, in ogni caso, tale ruolo fa parte del mandato dell’organizzazione oppure no?

Questa domanda va contestualizzata tenendo conto di tre fattori relativi al fenomeno della rappresentanza. Il primo è l’impegno nel difendere gli interessi legittimi delle cooperative; come è evidente, in questi anni si è tra l’altro trattato spesso di una partita in difesa, a fronte di provvedimenti che tendono a ignorare le specificità delle imprese sociali. Questo lavoro di “recupero” è estremamente defatigante, richiede di mettere a frutto relazioni e capacità di influenzamento – notoriamente, beni scarsi – avendo come possibile esito positivo il mantenimento dello status quo o anche solo la limitazione dei danni. Assorbe energie consistenti e richiede di spendere su questo fronte il numero non infinito di situazioni in cui si può contrastare il potere senza mettere a rischio la relazione. Dunque, si può immaginare, se si conduce una dura battaglia sul tema della fiscalità, spesso si dovrà rinunciare a farne un’altra sull’accoglienza. Tutto questo può spiegare perché le rappresentanze del movimento cooperativo, pur presenti su una pluralità di temi legati alle funzioni di tutela, siano stati invece relativamente inerti su altri fronti.

Il secondo fattore riguarda la complessità del movimento cooperativo, dove convivono, anche all’interno della singola Centrale, soggetti e orientamenti tra loro molto diversi. In altre parole, mentre sul chiedere di non pagare più tasse ragionevolmente si è tutti d’accordo, non è detto che la stessa comunanza di vedute vi sia su temi specifici, dove invece emergono distinzioni non sempre facili da mediare. E allora diventa più facile non occuparsene proprio, limitandosi ad azioni di tutela degli interessi.

Infine, a livello di rappresentanza, possono assumere rilevanza considerazioni “tattiche”: le reazioni che la stampa, l’opinione pubblica, taluni stakeholder possono avere e i riverberi su altre partite. E dunque possono essere portate a mantenere un profilo basso in alcune occasioni per non danneggiare la possibilità di interlocuzione su altri fronti. Per fare solo un esempio, la relativa assenza delle organizzazioni di rappresentanza sul dibattito quando nell’autunno 2018 vennero introdotti i decreti Salvini può spiegarsi con una valutazione sulle reazioni che l’opinione pubblica avrebbe avuto, accusando le imprese sociali di contrastare la stretta sull’immigrazione perché interessate a mantenere gli introiti sulla gestione dei centri di accoglienza.

Il risultato

Da una parte il bisogno della cooperazione sociale e del resto del Terzo settore di produrre pensiero, cultura, cambiamento, di fare politica. Dall’altra le rappresentanze che agiscono su altri piani. Potrebbe scaturire una sorta di spontanea e consensuale separazione dei compiti, una presa d’atto dell’attuale equilibrio di tra soggetti e istanze diverse, con un reciproco riconoscimento e valorizzazione. Ma non sempre questo accade.

Da parte dei soggetti culturalmente attivi nasce la sensazione di essere trascurati dalla propria organizzazione di rappresentanza, lasciati soli ad affrontare delle battaglie nelle quali troverebbero naturale avere al proprio fianco un soggetto forte e ben strutturato nel quale si riconoscono. Possono accusare le organizzazioni di rappresentanza di essere timorose, di far prevalere considerazioni “di convenienza” allo schierarsi secondo giustizia.

Da parte delle organizzazioni di rappresentanza può nascere il timore che questi movimenti spontanei delegittimino il proprio operato: in sostanza che diano adito a malumori da parte di altri associati che rimproverano appunto l’assenza o l’inerzia della rappresentanza; o peggio, che agendo in modo scomposto rechino un danno ad azioni più complesse che chi si occupa di rappresentanza sta svolgendo e che la “base” tende a non comprendere, pur essendo svolte nel suo interesse. E questo è sentito come una mancanza di fiducia, una delegittimazione, che quindi lede al prestigio della rappresentanza anche al di là dei contenuti effettivamente proposti.

Quindi?

Non si ha la pretesa di trovare una soluzione ad una questione complessa né di indicare alle organizzazioni di rappresentanza dovrebbero fare. Ma forse alcune cose è possibile dirle.

La prima è che la rappresentanza non deve temere la presenza di soggetti attivi, partecipi, culturalmente intraprendenti. Sono una ricchezza per tutto il movimento, portano un patrimonio di idee e proposte che vanno valorizzate. Anche laddove vi siano motivi, come quelli sopra richiamati, per non inserirle nell’azione di rappresentanza, anche quando esse possono coincidere con la sensibilità di solo una parte dei propri associati, la presenza di soggetti pensanti, in grado di elaborare proposte, di stimolare un confronto collettivo, di animare il dibattito politico, è un capitale sociale da coltivare e sviluppare.

Bisogna essere consapevoli che cultura e rappresentanza seguono percorsi differenti. La rappresentanza deve seguire passaggi tali da garantire che le posizioni espresse si formino con procedimenti adeguati a legittimarle; la cultura segue percorsi diversi, non trae forza dai numeri di chi aderisce, ma dai contenuti che esprime. È costitutivamente un po’ anarchica e incontrollabile e tanto è vero che quando si trasforma in voce istituzionale diventa presto noiosa.

Certo, la rappresentanza ha poi il compito di comporre istanze culturali diverse, ma il fatto che le idee si sviluppino e si confrontino è necessario, affinché tale composizione non si attui a partire da concetti ripetitivi e scontati.

Conclusione

Risposte semplici non ce ne sono. Ma se in questi anni chi fa rappresentanza si è spesso trovato a giocare di rimessa, a dedicare energie per limitare i danni rispetto a tentativi di marginalizzare le nostre esperienze, è anche per l’affermazione di un clima culturale ostile. Giocare di rimessa, essere efficaci nel limitare i danni di una proposta di legge sgradita è importante, ma non riesce a toglierci dall’angolo. Bisogna che accanto a ciò si sviluppi una capacità di elaborazione, di invenzione, che richiede la disponibilità ad uscire dagli schemi. Per questo gli indisciplinati, quelli che esplorano, che propongono, sono importanti, un piccolo tesoro.

E di qui si può ripartire. Perché da questa consapevolezza è possibile andare alla ricerca di nuovi equilibri e sinergie, oggi tutti da costruire.

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