Di fronte alla miseria
Si riproduce di seguito un articolo di pubblicato da Georges Tabacchi, presidente del Consorzio Abele Lavoro su Welforum, uno dei più prestigiosi media online che si occupa di welfare. Lo stesso autore ha pubblicato su Welforum nei mesi scorsi Il distanziamento educativo in tempo di pandemia e Le distanze in comunità: chi tutela chi?.
Una storia vista tante volte
È difficile per noi operatori sociali confrontarci con la miseria. La miseria: non è solo indigenza, ma anche limitazione delle capacità, delle competenze professionali e sociali, relazioni rarefatte, passato (e presente) opprimenti. La miseria significa persone con le quali c’è poco da fare, sono rivendicative, poco collaborative, sono persone con le quali è difficile anche iniziare a pensare ad un progetto di cambiamento.
Ma comunque ipotizziamo delle soluzioni, qualcosa lo vogliamo lo stesso fare, non ci sentiremo a posto nel rimandare a casa la persona a mani vuote. Un po’ per l’insopprimibile volontà di aiutare, un po’ per reazione difensiva, facciamo un tentativo: ecco, ad esempio, possiamo organizzare un tirocinio presso quella cooperativa che sa essere accogliente, comunque una piccola borsa c’è, è un’esperienza in più e poi così avrà un po’ di soldi in tasca, chissà che non sia un buon inizio per risollevarsi.
Ma quel tirocinio presto fallisce: la persona ammalata di miseria “salta”, è andata per qualche giorno, poi non si presenta più o si presenta in condizioni incompatibili. È la conferma che sì, con quel caso non vi è proprio nulla da fare; e nella nostra testa di operatori sociali nasce una voce che con gli anni si fa sempre più invadente: se solo non fossimo tenuti a perdere tempo con queste persone, si potrebbe lavorare meglio; ci vengono in mente gli altri utenti, meno miseri, meno rovinati, con cui invece si può fare un buon lavoro e ci risuona uno strano e inquietante miscuglio di parole che mette insieme la vocazione al cambiamento tanto radicata nel mandato professionale (i servizi devono pur aiutare le persone a cambiare, a migliorare!) e logica efficientista: quanti ne abbiamo aiutati oggi, quanti progetti hanno avuto successo, quale è stato l’impatto misurabile del nostro lavoro? Questo, il “misero”, sicuramente no, non lo abbiamo salvato, continuerà ad arrancare mezzo sommerso come sempre e – il passo è breve – noi quindi siamo stati inutili.
L’operatore sociale di fronte alla miseria
Lavorare con la miseria è difficile, spesso frustrante. L’operatore ha l’impressione di essere d’un tratto atterrato in un paese lontano, ostile, sporco, sconosciuto e pericoloso; è guardingo, sulla difensiva, in uno stato di ansia permanente. La miseria e la sofferenza sono portatrici di contraddizioni, di ambivalenze, di cattivi odori, di troppi perché che non trovano risposte.
E se proviamo ad entrarci, dentro le storie di miseria? A guardarle da dentro, ad accompagnarle?
Non illudiamoci: sono storie che sono e rimangono dolorose e anche quando le si guarda da dentro, la fatica non si allevia. Però insieme alle fatiche è possibile vedere anche altro. È possibile intravedervi malgrado tutto percorsi di crescita, di conoscenza di sé, capacità di resilienza impensabili. Si scoprono storie, mondi reali non scontati anche per chi da anni opera nel sociale che ti trasportano e ti lasciano il segno.
Miseria e sofferenza non sono solo deriva, biografie trascinate verso il basso da una corrente che non si riesce a controllare. Sembra impossibile, ma anche dietro a quelle storie vi è un’identità che le persone si costruiscono. E non è solo l’identità trasandata che arranca senza meta, è anche esperienza su come sopravvivere in situazioni estreme, storie di solidarietà inattese, pensieri con cui una persona ha costruito un’immagine di sé.
Questa è la prima consapevolezza che l’operatore sociale deve maturare: che ciò che si trova davanti, oltre alla miseria, ha sempre una dignità che va riconosciuta, non è solo un insieme di situazioni e caratteristiche da estirpare. Tutto ha una storia, tutto si è costruito, tutto ha preso corpo piano piano ed è diventato quello che è, non è un vuoto su cui costruire da zero.
E questo ha delle conseguenze. La prima, per la persona in situazione di miseria, è che quel poco, quel quasi niente che si è costruito è un piccolo tesoro, l’unico piccolo tesoro di cui dispone e che può essere difficile separarsene senza che ciò crei smarrimento. Con gli occhi dell’operatore, avere una casa quando prima si dormiva per strada è senz’altro un passo avanti, ma quel dormire per strada – e reti di solidarietà sotterranee, le abitudini che hanno accompagnato quella vita – oltre che una sofferenza è stato per la persona l’unica cosa che ha imparato a fare, l’unica che, tra l’altro, sa fare meglio dell’operatore che si trova di fronte, il luogo dove ha costruito quello che è.
Certo chiede di cambiare. Chiede una casa, un lavoro, rivendica, pone questioni. E probabilmente può effettivamente cambiare, ma non senza fare i conti con l’identità che sta lasciando. Può volerci tempo, possono essere necessari pazienza e vicinanza.
La seconda è che ogni cosa guadagnata deve poi essere difesa, e questo chiede energia; e chiede fiducia nelle proprie capacità. Ma chi non riesce o non ha più voglia di lottare – chi gira per strada con una valigia, un carrello del supermercato e un cane vicino, chi ha l’anima e il fisico logorati dalla sofferenza – cerca di non avere nulla da difendere. Ogni passo che l’operatore vede come opportunità di reinserimento richiede anche l’energia per saperla mantenere, pena una nuova esperienza di sconfitta che non farà altro che confermare alla persona la sua inadeguatezza. E allora è meglio, per chi vive nella miseria, chiedere l’impossibile avendo a mente di non cambiare, urlare che nulla funziona per allontanare la convinzione di essere una persona sbagliata.
Ma in questo chiedere e richiedere, in questo chiedere per non ottenere, va letta anche un’altra profonda esigenza, che è quella di continuare a stare in relazione. È una specie di gioco di ruolo in cui la persona in miseria che ha iniziato a fidarsi teme più di tutto il diventare un “caso chiuso”, sistemato, una persona di cui non c’è più bisogno di occuparsi perché si è offerta una risposta prestazionale.
E quindi anche per l’operatore è in agguato un senso di frustrazione. Si è rivolta a me una persona bisognosa di tutto, mi ha fatto delle richieste, tutti mi dicevano che non dovevo credere in quella persona, io invece l’ho fatto, ho investito per cercare una risposta e gliela ho messa a disposizione, e lui non l’ha sfruttata. Volevo esserci, ero dalla sua parte, perché a differenza di altri ero consapevole di quanto la sua sofferenza derivasse da ingiustizie subite, ma lui mi ha tradito. E, dopo un po’ di situazioni di questo tipo, le esperienze negative dell’operatore si consolidano in sfiducia nel proprio lavoro, in una sensazione di non essere adeguato, nella convinzione che i servizi siano inutili. E in sfiducia nella relazione, quella che porta l’operatore a sentire la relazione come una fatica da cui sfuggire anziché come il bello del suo lavoro. Quella che porta anche in una comunità, dove si vive insieme, a dilatare i tempi in ufficio anziché con le persone, sicuramente per le crescenti incombenze burocratiche, ma non solo.
Ricostruire il senso del cambiamento
Come porsi di fronte a tutto ciò? Se la posizione forte, quella del cambiamento efficientistico, risulta frustrante, potremo essere tentati di abbandonare qualsiasi idea di utilità dell’intervento sociale, con la scelta di rifugiarsi al di fuori della relazione. Come ricostruire un discorso in cui collocare in modo diverso la prospettiva del cambiamento? Proviamo ad immaginare delle tappe.
In primo luogo, è necessario ascoltare per conoscere. Non perdere nella consuetudine del lavoro la capacità di avvicinarsi alle storie delle persone non fermandosi al manifestarsi dei fenomeni. La miseria ha anch’essa una storia, una vicenda che ha portato la persona a vivere le fatiche in cui oggi si trova. Partire da qui e non dall’interrogarsi sulla prestazione da attivare per un determinato caso è il punto di partenza.
Poi è necessario condividere spazi e tempi in una logica di prossimità. È un setting diverso da quello tipicamente prestazionale, in cui una scrivania divide il richiedente aiuto da chi può erogarlo. Il “fare insieme” continua ad essere il veicolo della contaminazione, del riconoscersi reciprocamente. Crea uno spazio in cui la relazione può svilupparsi.
Si tratta poi di accettare, da parte dell’operatore, di essere un compagno di viaggio temporaneo, non necessariamente risolutivo; ma il fatto stesso di esserci, di entrare in relazione, di scambiare con l’altra persona, è di fatto una grandissima opportunità reciproca di crescita. L’operatore deve vivere con serenità e senza asia da prestazione questa parzialità, nella consapevolezza che non esiste una relazione meccanica tra intervento e risultato, ma che ogni tassello che la persona ha ricevuto potrà contribuire a comporre – forse – una leva per il cambiamento.
In questo tratto di strada comune, certamente l’operatore ha occasione di mettere a disposizione delle opportunità, sapendo che l’altra persona ha tempi che vanno rispettati e che nulla può essere imposto. E soprattutto senza dimenticare che la prestazione non è la relazione: la relazione è importante a prescindere, sia quando dà luogo a un’opportunità specifica di aiuto, ma anche quando è semplicemente incontro e costruzione di fiducia.
Bisogna sempre ricordare che questi percorsi non sono lineari. L’incongruenza, la cosa detta e poi non fatta, la speranza disattesa, il fallimento, ne sono parte. Questo richiede certo pazienza e tolleranza nei confronti dell’altra persona, ma anche serenità da parte dell’operatore sociale nel non leggere queste situazioni come un proprio fallimento. È importante vivere il proprio lavoro con leggerezza, che non è distacco o superficialità, ma la capacità di attraversare le diverse fasi della relazione. Mantenere la leggerezza nella relazione spiazza e conforta, non carica sé e l’altro di aspettative improprie, mantiene aperta l’idea che le evoluzioni sono possibili, anche quando qualcosa non va nel modo giusto.
Insomma, l’elemento che continua a essere dirompente, è la capacità di vedere nella relazione ciò che l’altro non vede più o non ha mai visto di sé. Qualcosa di vero, di autentico che si è colto dalla storia, che si è rafforzato nella relazione. Apre alla speranza.